lunedì 31 dicembre 2012

‘A Christmas Carol’ e i buoni propositi per il nuovo anno


Charles Dickens  nel suo ‘A Christmas Carol’ ammonisce il vecchio misantropo e taccagno Scrooge a cambiare quanto prima la sua visione della vita e lo invita ad aprirsi agli altri e a far loro del bene, a  mettere in secondo piano il ‘Dio denaro’ e a ritrovare la dimensione umana che nel tempo aveva perduto. E come si sa bene l’ammonimento arriva attraverso la comparsa durante la sera del 24 Dicembre dei tre Spiriti del Natale, quello del Passato, quello del Presente e quello del Futuro, che rappresentano i primi due sintesi dell’intera vita del vecchio e il terzo di come andrà a finire se persisterà nel suo disdicevole stile di vita. Così, in questi giorni di vacanza, ho provato a fare una riflessione con l’aiuto dei tre spiriti, senza che il tutto abbia un risvolto troppo moralistico, ma per provare invece a focalizzare i buoni propositi per l’anno nuovo.

Lo Spirito del Passato, quella specie di bambino-anziano con la voce flebile e sussurrata e la forma di una candela, mi ha riportata ai Natali di quando ero piccola e la visione è stata molto piacevole. La famiglia si trasferiva dal Veneto in Emilia dove risiedevano i nonni materni e paterni. Le immagini ricorrenti sono quelle dell’abete davanti a casa dei miei nonni, adornato con le palline di plastica con dentro le lucine; il polpettone di tonno della Vigilia di Natale mangiato dai bambini in cucina mentre i grandi cenavano in salotto; l’apertura dei regali, uno, massimo due, perché quella volta non c’era l’esagerazione di oggi; la Messa e il pranzo del 25 dagli altri nonni con i magnifici tortellini in brodo fatti in casa dalla nonna materna; il pomeriggio al cinema dopo gli auguri agli zii, rituale piacevole e non modificabile. Così per diversi anni dell’infanzia e prima adolescenza e poi un rush veloce attraverso l’età giovanile ed infine adulta, con i successi e i fallimenti che la vita ti riserva per ‘costruire’ alla fine la persona che si rappresenta.

Lo Spirito del Presente, quel giovane-ma non troppo che ride in continuazione (ma cosa avrà poi tanto da sghignazzare?) mi riporta subito dopo all’oggi, alla mia bella famiglia e ai miei due magnifici bambini, ma anche ad alcuni rimpianti (e chi non ne ha?), alla stanchezza per alcune situazioni professionali non ottimali e al desiderio ma anche alla difficoltà oggettiva di coltivare interessi utili agli altri, oltre che a me stessa, e le poche ma buone amicizie che mi circondano.

Lo Spirito del Futuro: per fortuna non mi è venuta a trovare la signora con la falce come è successo a Scrooge!, ma comunque lo spirito muto, che ti indica come potrebbe essere se non cambi nulla rispetto a come stai vivendo l’oggi, mi ha fatto rifletter su uno o due aspetti su cui vorrei ‘lavorare’ per cambiare qualcosina con l’anno nuovo. Quindi li ho ben fissati in mente e come un nodo al fazzoletto il prossimo anno spero di poter fare un consuntivo positivo di come è andata. Non entrerò in dettaglio nella loro descrizione ma di certo riguarderanno famiglia e lavoro i due più impegnativi, approccio agli altri e le mie passioni i successivi.
Spero solo di non aver messo troppa carne al fuoco..

Buon anno nuovo e buoni propositi a tutti!



sabato 29 dicembre 2012

Il Natale, festività unica e allo stesso tempo sempre uguale


La settimana che va dalla sera della Vigilia di Natale al Capodanno è una settimana in cui si perde la cognizione del tempo, non si sa bene in quale giorno della settimana ci si trovi e quanto esattamente manchi alla ripresa delle attività ordinarie. Fa eccezione chi svolge dei lavori che in questa settimana vedono quadruplicata la normale attività, ma nel mio caso mi ritrovo fra quelli che riescono a godere di una piccola ma vera pausa festiva.
La staticità quindi di questi momenti si ripete ogni anno più o meno nello stesso modo, ma è una staticità non negativa, quasi magica, tempo sospeso che ci dovrebbe permettere di fare qualche riflessione che di solito non si riesce a fare. Ho trovato quindi molto piacevole la lettura di un piccolo gioiellino di Dylan Thomas (1914-1953), ‘A Child’s Christmas in Wales’, che racconta il Natale dell’autore da bambino trascorso nel suo paese natale in riva al mare in Galles. Le vicende narrate si svolgono dal pomeriggio della Vigilia alla sera del 25 Dicembre e l’incipit è significativo di come l’atmosfera del Natale sia una ri-correnza annuale che immancabilmente vede la reiterazione di usanze, comportamenti, colori, suoni  e finanche condizioni metereologiche sempre uguali a se stesse.
"Ogni Natale era così uguale agli altri…. che non riesco mai a ricordare se aveva nevicato per 6 giorni e 6 notti quando avevo 12 anni o se aveva nevicato per 12 giorni e 12 notti quando avevo 6 anni.

Così Dylan Thomas, con il suo stile unico, racconta il susseguirsi di aneddoti, attività svolte, rituali tipici di questa festività che, come perfettamente descritto in una bella recensione del racconto trovata nel web, sembrano bolle di sapone che si muovono in aria e scoppiando lasciano subito spazio a quelle successive. Forse associazioni mentali, semplici sinapsi che danno però un senso di leggerezza e armonia di una giornata sospesa, immobile come quella del Natale, ma contemporaneamente palcoscenico di tanti piccoli eventi.
Così il racconto passa dalla descrizione di una preparazione a una battaglia di palle di neve di due piccoli amici contro dei gatti-giaguari in un giardino innevato, all’intervento con le stesse palle di neve per spegnere un piccolo incendio scoppiato in casa della signora Prothero, padrona del giardino di cui sopra; dalla descrizione di altri giochi fatti con la neve ai postini che con il naso rosso e le dita delle mani e dei piedi congelati portano le cartoline di auguri di Natale suonando i campanelli all’ingresso delle case; dall’elenco dei regali utili a quello dei regali inutili ricevuti dai bambini per l’occasione; dalla descrizione degli zii che ‘..ci sono sempre..’ per celebrare la festa, che fumano i loro sigari con respiri che sembrano quasi farli scoppiare a quella della zia Hannah che corregge il suo te con il rum, perché tanto succede solo una volta all’anno!
E poi si susseguono le descrizioni degli scherzi e dei giochi dei bambini, del pranzo e del seguente te servito per l’ora di cena del giorno di Natale, delle luci, della musica e dei canti che vanno avanti tutta la notte fintanto che il protagonista non si addormenta nel suo letto dopo ‘..aver detto qualche parola alla vicina e santa oscurità’.

Dylan Thomas aveva scritto questo racconto per trasmetterlo in radio, cosa che fece registrandolo nel 1952 di persona (si trova la video-lettura di poetictouch.com su you-tube). Sono state fatte anche delle trasposizioni televisive del racconto, a mio avviso non molto fedeli all’originale, almeno quelle che ho trovato disponibili.
L’edizione che possiedo e che ho trovato è quella in lingua originale della Orion pubblicata nel 1993, un libricino piccolo e illustrato magnificamente da Edward Ardizzone in edizione definitiva del 1978, che trasmette l’incanto di questo spaccato di realtà così comune ma allo stesso tempo così surreale che non può non deliziare queste giornate di festa, sia dei grandi che dei bambini.

mercoledì 26 dicembre 2012

'Lost in Austen' il libro: meno male che sono già sposata!


Davvero, non ce l’ho fatta.. Dopo le ‘ammalianti’ presentazioni della cara Sylvia del blog Un te con Jane Austen e delle altrettanto care Lizzies- di cui Sylvia fa parte- del blog Old Friends & New Fancies, non ho resistito e per Natale mi sono regalata il libro ‘Lost in Austen’ di Emma Campbell Webster, nuovo nuovo di pubblicazione. Non ho nemmeno indotto qualche Babbo Natale a regalarmelo su richiesta, e non ho partecipato al Give Away di OF&NF perché dovevo averlo ... (in ogni caso ottima iniziativa Lizzies!). Così sono andata a comprarmelo nell’unica libreria del paese dove abito e naturalmente non ce l’avevano, o, meglio, ne avevano un’unica copia misteriosamente scomparsa, ‘..forse venduta..’! (ma come ‘forse’ - mi sono detta - non si registrano più le vendite??). Comunque dopo pochi giorni era arrivato e così il 24 Dicembre era nelle mie mani. Ieri ho iniziato subito a leggerlo nei pochi minuti liberi da impegni Natal-familiari e devo dire che le aspettative sono state soddisfatte per vari motivi:
         - innanzi tutto anche se in una forma non Austen d.o.c. e in una riuscita sintesi, è un bel ripasso dell’amato romanzo ‘Orgoglio e Pregiudizio’ di zia Jane;
         - poi le possibilità che si aprono sono davvero divertenti e permettono il richiamo a momenti degli altri romanzi non meno amati;
          - la lettura non è impegnativa, è semplice e dinamica e oltretutto devo dire che la protagonista (cioè chi legge) se ne sente dire un bel po’ dall’autrice circa difetti, sfortuna, scarsa intelligenza e via dicendo.
Insomma è davvero un gioco simpatico, peccato non poterlo fare assieme ad altre Janeites!
Al momento però c’è solo un neo, ma non mi do per vinta, perché sto cercando di far avverare il mio sogno segreto di cui parlerò più tardi.

Attenzione spoiler - da qui in avanti chi NON volesse anticipazioni sul libro non vada avanti.

Così nei panni di Lizzie Bennet ho cominciato a vivere in prima persona uno dei romanzi romantici più famosi al mondo e, conoscendolo assai bene, all’inizio mi viene quasi automatico procedere per la strada maestra che conduce all’ammirevole Darcy, ma poi all’improvviso mi scopro davvero negata per il ballo. Devo infatti scegliere fra due alternative di descrizione sul ‘Reel’ e naturalmente sbaglio. D’accordo, perdo punti in ‘Qualità’, ma posso procedere anche se zoppicando. A un certo punto però prendo coraggio e abbandono la via maestra e invece di invitare mia sorella Jane ad andare a distrarsi con gli zii a Londra, dopo la partenza di Bingley, ce ne andiamo assieme a Bath (e qui comincia la via per raggiungere il mio desiderio segreto..). Ho subito la fortuna di conoscere il non privo di qualità Tilney e la sorella, i quali mi invitano a Northanger Abbey e qui, curiosando nelle stanze dell’antica dimora, anche se discretamente, finisco imprigionata nelle grinfie – e nella stanza in solaio - di una vendicativa e gelosa Fanny Price che a nome di tutte le eroine austeniane mi isola per il resto della mia vita da tutti e mi uccide con 'la noia della sua mansuetudine.' Così arrivo miseramente alla fase due e fallisco la mia ricerca dell’amore vero, sob!
Ma non mi do per vinta, così torno un po’ sui miei passi e ,dopo aver proceduto per la strada maestra per un po’  nonchè aver perso diversi punti in ‘Intelligenza’ e ‘Fortuna’ (!), decido di accettare subito la prima proposta di matrimonio del magnifico Darcy così innamorato di me. E perché no? Secondo disastro totale. Lo sposo, d’accordo, vado a vivere a Pemberley ma da subito egli mi trascura e io mi annoio, per cui divento in breve una moglie fedifraga e mi butto nelle braccia del fattore della tenuta, semplice e un po’ rozzo, che veste i panni di niente meno che Robert Martin! Ma come, non amava spassionatamente Harriet? Si viene a sapere della relazione, scoppia lo scandalo degli scandali, scappiamo, finiamo in rovina e anche per odiarci e finisce così orrendamente la mia vita amorosa..
Quindi se permettete ‘sorge spontanea’ una riflessione e torno al titolo del post: meno male che sono già sposata!
Ma scherzi a parte, non mi arrendo ancora perché, non solo mi sto divertendo, ma non ho ancora perso la speranza di far avverare il mio sogno segreto: sposare il bel capitano Wentworth!.. e so che potrei anche farcela nei panni di Elizabeth Bennet!

sabato 22 dicembre 2012

Natale in casa March


Due sono i Natali descritti in ‘Piccole donne’ il capolavoro di Louisa May Alcott, perché di un anno è la descrizione del percorso di crescita delle 4 sorelle March così differenti fra loro ma pezzi di un puzzle unico e armonico tenuto assieme dal raro e solido affetto familiare che traspare da ogni pagina del romanzo. Difficilmente non si sa chi sono Meg, Jo, Amy e Beth, le sorelle qui in ordine di età, che animano pagina dopo pagina questo classico della letteratura americana. Vorrei però soffermarmi sullo spirito natalizio descritto nei due momenti di apertura e conclusione del romanzo che sebbene descrivano il primo il momento più difficile che sta attraversando la famiglia e, il secondo, il più felice, mantengono comunque lo stesso livello di magica unicità che ricorre in questo periodo dell’anno.
‘Natale non sarà Natale senza qualche regalo..’, e chi afferma il contrario sa quanto invece gradito sia, anche se piccolo e di poco valore, un dono ricevuto per questa occasione. Così Jo esordisce all’inizio del libro quasi a premonire l’immagine della mattina di Natale in cui svegliandosi  osserva che non vi  sono calze appese al camino, ma poi all’improvviso ricorda che la mamma le aveva detto che sotto il cuscino di ognuna di esse al risveglio ci sarebbe stata una piccola sorpresa. E cos’è più bello che ricevere un libricino rilegato con una copertina di diverso colore per ogni sorella? Che sorpresa e che felicità seppur in un piccolo dono come quello!
L’atto del donare in tema natalizio è una tradizione cristiana riconosciuta che simbolicamente trae origine dal dono per eccellenza che Dio ha fatto all’umanità, ovvero suo figlio, il Cristo; ma il dono è anche quello che i Magi portano a Gesù bambino, dopo aver fatto molta strada seguendo la Cometa, per onorare la nascita del Re dei Re.
Vero però è che il Natale è soprattutto l’occasione in cui ci si ritrova assieme ai propri cari, alcuni dei quali non si vedono da tempo, per trascorrere qualche ora in armonia a raccontarsi novità o a ricordare eventi passati. Il festeggiamento dell’evento della nascita viene fatto con la preparazione di cibi che, tra la tradizione pagana e religiosa, ricordano l’unione del presente e del passato, momento dove il soprannaturale è molto a contatto con il reale.
E quale occasione migliore che non sedersi attorno a una tavola ben imbandita?
La seconda sorpresa del primo Natale narrato delle sorelle March è stata quella di trovare una cena straordinaria che la famiglia, caduta in rovina, da molto tempo non poteva permettersi: due coppe di gelato di panna per le sorelle, ‘..dolci, frutta e leccornie francesi da far girare la testa..’accompagnati da quattro bellissimi mazzi di fiori,  tutto offerto dal generoso anche se burbero nonno di Laurence.
Che gioia assaporare assieme una cena come quella dopo che le quattro ragazze avevano offerto la loro colazione a una famiglia più povera di loro come dono di Natale.
Un Natale semplice ma speciale quindi su cui però grava l’unica nota stonata, ovvero l’assenza del padre, lontano perché in servizio nella guerra di Secessione.

Nel loro percorso di crescita di un anno ecco che alla fine del romanzo ritroviamo le quattro sorelle alle prese con i preparativi del secondo Natale in casa March.
Le ragazze sono cresciute, e quanto ai doni, più che l’aspetto materiale di questi è il contesto e la sorpresa che colma di felicità chi li riceve che conta: dapprima Jo e Laurence preparano un buffo pupazzo di neve per la convalescente Beth, ornato con un rotolo di musica, uno scialle afgano e un inno di Natale scritto dai due complici in onore della ‘Regina Bessie’.
Ma ancor di più, la sorpresa che emoziona tutti e corona la felicità del momento è il ritorno inaspettato del padre dalla Guerra che, sebbene anch’egli convalescente, è riuscito a riunirsi alla sua amata famiglia.
L’atmosfera è completata poi dall’ingresso di un nuovo soggetto nella famiglia March, quello del Sig. Brooke, fidanzato di Meg tanto osteggiato da Jo in quanto per lei elemento turbatore di quel puzzle unico di cui si diceva all’inizio. Egli invece saprà perfettamente integrarsi nel quadro generale così come molto più avanti anche Laurence, precedentemente rifiutato da Jo.
Il Natale quindi si sublima nel pranzo, a cui partecipano anche Laurence e il nonno,  mai così ben riuscito come quello preparato per l’occasione da Hannah la domestica: tacchino ripieno, dorato e con decorazioni, squisite marmellate e budino. Non si cita altro tipo di cibo, ma sembra comunque un pranzo da sultano, con il reale sospetto che sia più la compagnia che il cibo stesso a fare dell’occasione la più bella festa dell’anno.

Concludo con un video di un episodio del cartoon ‘Piccole donne’, che anche se ben lontano dalla perfezione dei bellissimi film realizzati negli anni 1949 e 1994, e con un’improbabile Jo biondissima, trasmette comunque bene la dimensione di ingenua spensieratezza con cui nell’adolescenza o poco più si affrontano le prove semplici e difficili della vita.



Buon Natale

domenica 16 dicembre 2012

La magia delle festività natalizie



Periodo natalizio e di festività, freddo, luci e addobbi colorati..frenesia della gente che, in alcuni casi spinta dall’entusiasmo vero per l’evento o in altri dal rispetto delle convenzioni, corre qua e là a comprare pensierini per i cari. Un po’ di malinconia anche, perché il periodo anche metereologicamente parlando lo prevede: con la neve si attenuano i rumori, il tempo sembra sospeso a Natale, in attesa di qualcosa di vecchio da lasciare e qualcosa di nuovo da accogliere. Così le mie letture di questo periodo si spostano su libri a tema o che comunque descrivono passaggi o momenti festivi natalizi, mentre lascio solo momentaneamente sospese le letture già avviate. Non ci sono novità che le/gli appassionate/i  della letteratura di genere romantico dell’800 non conoscano, ma in ogni caso nei prossimi post di Dicembre vorrei soffermarmi a ricordare la magia del Natale che così bene emerge da capolavori come ‘Piccole donne’ e ‘Un sogno di Natale e come si avverò’ di Louisa May Alcott, ‘Canto di Natale’ di Charles Dickens, che sto leggendo in questi giorni al mio ometto di 5 anni, e un gioiellino di Dylan Thomas che ho recuperato usato e in lingua originale perché introvabile nelle librerie italiane, intitolato ‘A child’s Christmas in Wales’.
Nel frattempo auguro a tutti di passare un ‘lieto Natale’, di Dickensiana memoria, per dedicare un pensiero o un dono a chi ne ha bisogno, la giusta intimità ai propri cari per cui si ha sempre meno tempo e un momento di riposo ‘mentale’ a se stessi con una buona lettura, sano e pacato nutrimento dello spirito.

Buon Natale da Laura 





martedì 11 dicembre 2012

L'origine dell'amore romantico: il mito greco


Romantico è l'amore eterno che gli innamorati si giurano e mantengono fin che morte non li separi e, se possibile, anche dopo. I miti greci, altro filone  di letture da me predilette, sono ricchi di racconti di grandi passioni, anche se spesso fugaci: le famose scappatelle di Zeus o di Apollo ne sono l'esempio concreto, se di qualcosa di concreto si può parlare nella mitologia.
Tre in particolare invece sono gli esempi di amore assoluto di questo lontano ma straordinario periodo storico, che dimostrano come la punizione originaria di Zeus all'uomo primordiale poichè essere perfetto e bastante a se stesso, sia stata la causa originaria di amori profondi e duraturi anche in tempi caratterizzati da costumi liberi e poco convenzionali come quelli degli antichi greci. 
Narra infatti Platone nel suo 'Simposio' attraverso al voce di Aristofane: 
'Un tempo gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v'era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà, trovando la quale torna all'antica perfezione.'
Il mito di Orfeo ed Euridice è una delle più belle tragedie greche che raccontano di come il potere dell'arte e dell'amore siano tali da far quasi riuscire a far tornare dagli Inferi l'amata metà perduta. Si narra infatti che Euridice, moglie del trace Orfeo, morì a seguito del morso di un serpente, e il marito, famoso per le sue arti musicali, per la disperazione ricorse ad esse e al suono della sua lira per attraversare gli Inferi, giungere da Ade e Persefone e convincere quest'ultima a restituirgli l'amata. Persefone impietosita dal coraggio e dalla passione di Orfeo gli concede di far tornare in vita Euridice a patto che nel riattraversare gli inferi non si giri mai a guardarla finchè non ne fosse completamente fuoriuscito. Ma giunto proprio sulla soglia del regno dei morti, non riuscendo più a resistere, Orfeo si gira e vede così svanire per sempre nelle tenebre dell'eternità lo spirito di Euridice.
Il mito di Eros e Psiche narra invece della passione scoppiata fra la divinità simbolo dell'amore per eccellenza e la giovane fanciulla succube dei capricci degli dei, che apparentemente destinata a non trovar marito, fa invece involontariamente innamorare colui che di solito è artefice con i suoi dardi dei 'colpi di fulmine' per antonomasia. Dovendo però rimanere il loro amore segreto, Eros non solo rapisce la fanciulla  e la porta al sicuro nel suo castello, ma fa in modo che ella non lo veda mai e quindi riconosca, limitando i loro incontri passionali al buio della notte, espediente utile a non far infuriare la divina madre Venere. Spinta però dalle sorelle e dalla curiosità, una notte Psiche scorge alla luce di una lampada ad olio il bellissimo volto del suo amore addormentato, il quale, svegliatosi all'improvviso, l'accusa di aver rotto la promessa di non cercare di svelare in alcun modo la sua identità e vola via abbandonandola  seppur controvoglia. Psiche pur di riavere il suo amato supererà molte prove ma alla fine riuscirà a ricongiungersi a lui coronando le sue fatiche nonostante tutto. In realtà il mito viene narrato con diversi finali, non tutti a lieto fine a seconda dell'autore, ma a me piace pensare che sia questo quello 'vero'. Altro esempio di amore coniugale profondo e fedele nonostante tutto è quello di Andromaca per Ettore, l'eroe troiano ucciso da Achille. Andromaca nel momento cruciale della battaglia fra troiani e achei supplica il marito di non esporsi a rischi mortali ma lui, guerriero fiero e responsabile va incontro al suo destino di morte lasciando la moglie vedova infelice e costretta a diventare concubina del re nemico. Bellissimi i versi del VI libro dell'Iliade che descrivono lo straziante dialogo di addio fra i due coniugi. Dopo varie vicissitudini Andromaca sposa da ultimo il fratello di Ettore, Eleno, rimanendo però a fedele nella memoria al primo marito. 
La mitologia greca è piena anche di 'villains' se più modernamente li vogliamo definire, a partire da Zeus, marito fedifrago di Demetra, che piu' volte ha sedotto e abbandonato bellissime fanciulle, spesso anche con curiosi espedienti pur di possederle,  ovvero trasformandosi ora in cigno, con Leda, ora in Toro, con Europa e così via. Non da meno anche se numericamente con meno fanciulle sono stati Teseo, che dopo aver giurato amore eterno ad Arianna, la abbandona alle suo destino che piu' tardi prenderà nome di Dionisio, o Giasone che a causa del suo abbandono porterà alla follia la povera Medea che ne ucciderà i figli per vendetta; come non ricordare poi l'uomo/eroe egoista per eccellenza, Ulisse, che abbandona la povera Penelope per molti anni e quando finalmente ritorna a lei dopo diversi tradimenti, ne elimina i pretendenti e poi la riabbandona perchè incapace di non pensare ad affrontare altre e più sfidanti avventure.
Questi sono solo pochi esempi delle moltissime storie eterne o fugaci, che intrecciandosi si sono sviluppate ai confini fra il divino e l'umano nelle geniali menti dei nostri avi. Ma al di là del reale significato o della reale funzionalità della mitologia , quanta passione, amore e romanticismo è possibile scorgere già in questi capolavori di arte oratoria che ci sono stati tramandati?






martedì 27 novembre 2012

Théresè Raquin, antitesi del romanzo d’amore


Fra gli scrittori francesi dell’Ottocento Gustave Flaubert è quello che prediligo, più per il romanzo ‘L’ Educazione Sentimentale’, pregno di diversi riferimenti autobiografici, che per ‘Madame Bovary’, considerato il suo capolavoro. Naturalmente il gusto è strettamente personale. Grazie poi ad una copia di un libro che mi è stato passato/regalato di recente, mi sono imbattuta in Emile Zola, noto per memorie scolastiche per la sua famosa opera ‘Nana’, ma che mai avevo affrontato in ‘Thérèse Raquin’, il romanzo di cui volevo qui commentare la singolarità. Per un’appassionata di romanzi romantici dell’Ottocento, a lieto o tragico fine, ma in ogni caso narrazioni di storie d’amore, di passione profonda e totalizzante che tale sentimento può generare, leggere ‘Thérèse Raquin’ lascia un po’ perplessi. Le premesse lasciano ben sperare, si narra di un triangolo amoroso, una lei giovane, inesperta e un po’ insoddisfatta, un lui parente prossimo, coniuge predestinato, insulso e malaticcio, il terzo, l’altro, belloccio, vigoroso e mediocre pittore perditempo. C’è anche il colpo di scena, l’omicidio premeditato per poter superare le insormontabili difficoltà del coronamento della passione/amore e anche il tragico finale, che porta i due amanti a soccombere al rimorso di coscienza per l’efferatezza dell’atto commesso. Così pare o meglio così poteva essere se volutamente invece l’autore non avesse inteso stendere una rappresentazione scientifica, quasi fisiologica delle reazioni di diverse persone coinvolte in una relazione interpersonale. Si parla infatti non di sentimento ma di impulso, di attrazione carnale e quasi animalesca fra gli amanti: lei, Thérèse, che scopre per la prima volta cosa vuol dire essere attratta da un uomo, lui, Laurent, che brama la donna altrui, la sensualità esotica (lei è di origini metà francesi metà nordafricane). I personaggi vengono descritti attraverso i loro temperamenti, sono umili, scialbi e rozzi: nel caso di Camille, l’ignaro marito, o degli amici delle serate conviviali del giovedì, sono descritti come insulsi e non troppo dotati cognitivamente. Perfino il colore degli ambienti in cui si svolge la storia, i sobborghi di Parigi, dei connotati e finanche della pelle stessa dei personaggi definisce lo stato di bassezza e degradazione dei personaggi.
Altro protagonista drammatico è la tremenda suocera, la merciaia Madame Raquin, che colma d’amore lo sfortunato figlio fino a renderlo schiavo del suo iperprotezionismo e che in seguito, inconsapevolmente, benedice il matrimonio dei due fedifraghi e assassini dello stesso amato figlio. Tutto degrada progressivamente, il senso di colpa per l’omicidio commesso si manifesta attraverso il susseguirsi di crisi nervose che generano allucinazioni che si presentano sottoforma di immagini sfigurate del defunto che perseguitano i colpevoli.
Anche il povero gatto della merciaia, muto testimone delle vicende della casa, finisce spappolato contro un muro fuori dalla finestra in uno scatto d’ira del possente Laurent.
Questo è il realismo o ancor meglio il naturalismo di Zola, che con questo romanzo se ne afferma come padre fondatore, ma che contemporaneamente condanna e sfata ogni bellezza romantica del romanzo d’amore. Nel suo genere non si può dire che non sia comunque straordinario, anche se è piuttosto lontano dall’essere fra i miei romanzi preferiti.
La rappresentazione cinematografica del romanzo di Zola che suggerisco di vedere è il film del 1953 con interpreti un Raf Vallone, perfetto nei panni di Laurent e una bellissima Simone Signoret, nei panni di Thérèse. La curiosità di questa versione cinematografica è che il romanzo originale si svolge nella seconda parte dell’Ottocento mentre il film è trasposto negli anni Cinquanta, quindi modernizzato, attualizzato e decisamente un po’ più romantico.
Informo invece, per chi non ne fosse a conoscenza, che a marzo 2013 dovrebbe invece uscire una nuova versione cinematografica in costume di ‘Thérèse Raquin, del regista C. Stratton, con interpreti Tom Felton (ex Malfoy, maghetto biondo e cattivo di Henry Potter) nei panni di Camille e Elizabeth Olsen, sorella maggiore delle più famose gemelle prodigio del cinema americano, in quelli di Thérèse. Secondo me sarà bellissimo, ma non all’altezza dell’attesissimo Anna Karenina…

domenica 11 novembre 2012

La camera di Catherine Earnshaw, riugio dell'amore simbiotico e assoluto per Heathcliff


La prima volta che ho letto ‘Cime Tempestose’, l’indimenticabile quanto sconcertante romanzo di Emily Brontë, fra le particolarità che mi sono rimaste impresse e che hanno alimentato la mia immaginazione sui luoghi e ambienti in cui si è consumata una delle più note e tragiche storie d' amore narrate nell’800, spicca la descrizione della camera da letto di Catherine Earnshaw .
Catherine è la protagonista della passione tanto distruttiva quanto indissolubile provata e corrisposta da Heathcliff, un trovatello di ignote origini portato a casa dal padre di lei. Fin da piccoli fra i due si sviluppa un rapporto intenso, selvaggio e simbiotico che trova come luogo di innocente intimità la camera da letto di Catherine, dove spesso i due bambini si rifugiavano a dormire abbracciati.
Molti anni dopo Lockwood, un malcapitato ospite di ‘Wunthering Heights’, la residenza prima della famiglia Earnshaw poi di Heathcliff, così descrive la stanza in cui viene alloggiato (all’insaputa del proprietario) per l’unica e insonne notte in cui fu costretto a fermarsi.

“..chiusi la porta e mi guardai attorno cercando il letto. Per tutto arredamento vidi una sedia, un cassettone, e una sorta di grande armadio di quercia, con riquadri tagliati in alto simili ai finestrini di una carrozza. Avvicinatomi a quella singolare struttura, guardai dentro e vidi che si trattava di uno strano tipo di letto all’antica, concepito molto efficacemente per ovviare alla necessità che ogni membro della famiglia avesse una stanza tutta per sé. In realtà, costituiva da solo una piccola stanza; e il davanzale di una finestra, che racchiudeva, serviva da tavolino.

Per entrare dentro questa specie di armadio-letto bisognava far scorrere dei pannelli o ante. Una camera che nasconde una camera più piccola quindi, rifugio antico di un amore assoluto e primitivo, fatto di legno intarsiato pesante su cui sono stati incisi a mano dagli stessi innamorati i loro nomi, quasi ad indicarne l’esclusiva proprietà.
E così infatti è: Lockwood, l’intruso, non fa in tempo a coricarsi che viene subito svegliato e terrorizzato dal fantasma di Catherine che gli chiede di entrare dalla finestra e a cui lui immagina anche di toccare le mani gelide. Heathcliff, richiamato dall’urlo dell’ospite in quel luogo sacro per lui e maledetto per gli altri, dopo aver ascoltato cosa era accaduto, scaccia via Lockwood e rimane prima seduto nel letto amato, scosso da una forte emozione e poi, spalancando la finestra, urla fra le lacrime allo spirito della sua amata di entrare e tornare a lui.

La stessa stanza-armadio è anche il luogo dove Heathcliff si rifugia negli ultimi giorni della sua tormentata vita, quando pervaso da quello che lui stesso definisce un ‘cambiamento’, digiuno da giorni e spossato dal dolore e dalle allucinazioni che il suo inconsolabile amore gli infligge, in uno stato di quasi ultraterrena beatitudine trapassa e si ricongiunge alla sua amata. Steso sul letto e con la mano verso la finestra, così viene trovato dalla domestica Nelly, con gli occhi aperti e uno strano sorriso quasi a farsi beffe della morte.

Il film che in assoluto ha riprodotto più fedelmente la stanza e che fa capire il mistero e la magia di questo luogo è ‘Wunthering Heights’ del 1992, con interpreti Ralph Fiennes e Juliette Binoche (nel video qui sotto, dettagli vibili nei sec. 45 e 46). Emozionante la scena di Heathcliff che si avvicina e prende la mano del fantasma di bambina di Catherine davanti ai pannelli della camera-armadio da cui filtra una luce  sovrannaturale.


Mi piace pensare che questo strano posto, che a fatica all’inizio ho focalizzato nella mia mente proprio per la sua particolarità, sia stato davvero il luogo eletto dove si è consolidato l’amore dei due protagonisti e dove finalmente hanno avuto la possibilità di ricongiungersi, dopo la separazione fisica dovuta alla prematura morte di lei. Catherine è andata a prendere il suo Heathcliff in questa camera, nel momento in cui lui, terminato il suo ciclo di vendetta per sanare tutti i torti subiti, è stato pronto ad accoglierla e a sublimarsi definitivamente con la sua anima.
Si perché questo amore non parla della complementarietà degli amanti, ma della loro completa identificazione dell’una nell’altro: ‘…io sono Heathcliff..’ dice Catherine,  ‘..non posso vivere senza la mia anima..’ dice Heathcliff riferendosi a lei. In quel luogo eletto dunque le due anime si uniscono indissolubili e trovano finalmente pace.

martedì 6 novembre 2012

Le sfumature di Mr. Rochester


Mr Edward Rochester , protagonista maschile di ‘Jane Eyre’ creato dalla fervida immaginazione di Charlotte Brontë, è uno dei personaggi più problematici ed affascinanti fra i vari ‘principi azzurri’ incontrati nella letteratura romantica dell’800. In giovane età e controvoglia viene obbligato dal padre a contrarre un matrimonio combinato con una bella donna di origini Jamaicane, Bertha Mason, portatrice però di tare ereditarie tali che in breve tempo esploderanno nella nota follia distruttiva. Rochester però, da vero gentiluomo, preferisce provare a gestire il problema confinando la poveretta nella soffitta del suo palazzo signorile con una badante, piuttosto che rinchiuderla in un manicomio. Nel frattempo però, distrutto dal dolore, comincia una vita dissoluta e vagabonda che lo porta a varcare le soglie dell’inferno, come lui stesso definirà poi in più tarda età il periodo più nero della sua vita. Si innamora quindi di una giovane francese dai dubbi costumi, che lo usa però per godere del suo patrimonio e che gli lascia anche in affido la piccola creatura di cui rimane incinta ma di cui Rochester non sembra esserne il padre.  Anche se un po’ malamente, si occupa dunque oltre che della moglie pazza anche di Adéle, la bambina divenuta sua protetta. Ancor più disperato e deluso da tutte le circostanze negative che la vita gli ha riservato, si abbandona ai vizi e si corazza dietro un carattere burbero e misantropo che diversi anni più tardi verrà scalfito solo dalla luce che finalmente riuscirà a riportargli la giovanissima istitutrice di Adéle, Jane Eyre. Innamoratosi  profondamente di lei,  dovrà però fare ancora un po’ di strada per redimersi del tutto dalle brutture acquisite negli anni bui, passando attraverso molte bugie, un tentativo sventato all’ultimo di poligamia, ripetuti tentativi di omicidio nei suoi confronti da parte della moglie sì pazza ma anche gelosa e una cecità quasi totale, conseguenza dell’incendio appiccato dalla stessa Bertha, grazie al quale lei uscirà di scena.
Nonostante tutto però Jane Eyre, e anche tutte le lettrici appassionate del romanzo, non sono riuscite a fare a meno di innamorarsi di questo uomo non giovane, non bello, robusto e con gli arti un po’ tozzi, scontroso e, apparentemente con un’unica nota positiva, ovvero un bel patrimonio. Sono infatti la forza e la fragilità, contrapposte ma unite nello stesso affascinante personaggio, che lo rendono irresistibile e che scatenano nell’eroina del romanzo l’attrazione fatale che la riporterà a lui dopo aver cercato invano di sfuggirgli.
Dei tre attori che hanno personificato Mr. Rochester nei due più famosi film intitolati ‘Jane Eyre’(del 1996 il primo e del 2011 il secondo) e in una miniserie della BBC del 2006, vorrei descrivere le diverse caratteristiche che ciascuno di loro ha messo in evidenza, senza mai snaturare il personaggio e, a mio avviso, completandolo in tutta la sua bellezza romantica.

William Hurt, nel film di Franco Zeffirelli del 1992 con la bravissima e fisicamente più rappresentativa Charlotte Gainsbourg nella controparte di Jane Eyre, è il Rochester che meglio rappresenta l’età matura del protagonista, la sua sconsolatezza ed irriducibilità dell’ingiusto passato, attraverso il malinconico sguardo con cui osserva ogni cosa. Bellissima interpretazione, per me la più romantica.

Toby Stephens, nella miniserie della BBC del 2006 è un Rochester molto convincente, passionale, piuttosto aderente al romanzo, un po’ più della Jane Eyre interpretata da Ruth Wilson. Gli unici aspetti che forse si allontanano un po’ dal personaggio originale, ma che contemporaneamente esaltano l’immaginario dell’innamorato perfetto, sono la eccessiva  bellezza del protagonista, tutt’altro che banale, e la scarsa differenza di età che si percepisce fra Edward e Jane.

Infine Michael Fassbender nel  recente ‘Jane Eyre’ del 2011, che dire di lui? Il mio preferito in assoluto, non troppo bello ma il più passionale, carnale, mascalzone e sexy Rochester che si sia mai visto nello schermo.
Fa venire i brividi il richiamo ‘Janeeee..’ nella brughiera solitaria che la protagonista sente come irresistibile richiamo-allucinazione del suo amato, che la porta a ricongiungersi a lui ormai del tutto redento.
In un’intervista di Fassbender, l’attore dice che per interpretare questo richiamo nella mente della sua amata, ha preso spunto da Laurence Oliver che  ha interpretato Heathcliff nel film ‘Cime tempestose’ del 1939.. e non a caso aggiungerei.

Quindi diverse sono le sfumature date alle interpretazioni da questi bravi attori, ma sempre unico resta il magnifico Mr. Edward Rochester.

venerdì 2 novembre 2012

Sorelle e fratelli a confronto nei romanzi di Jane Austen


In questa giornata di quiete festiva, agognata e anche un pò forzata dal tempo, mi piaceva l’idea di provare a confrontare per caratteristiche e particolarità le molte sorelle e i pochi fratelli delle eroine dei romanzi della carissima Jane Austen.
Partendo da una pura indicazione numerica, si passa dalla presenza descritta di una sola sorella a un generico ‘molti fratelli e sorelle’ cosa che, se per i tempi poteva rappresentare la normalità, oggi i rari casi a due cifre sollevano meraviglia e preoccupazione su come sia possibile e faticosa la gestione familiare.
Quindi di seguito troviamo che:
- in ‘Emma’ l’eroina del romanzo ha una sorella più grande;
- in ‘Ragione e Sentimento’ e in ‘Persuasione’ si parla di 3 sorelle per ciascun romanzo comprese le protagoniste;
- in ‘Orgoglio e Pregiudizio’ si narra delle 5 sorelle più famose;                                                    
- ne ‘I Watson’, romanzo incompleto, sono presenti 4 sorelle e 2 fratelli nel complesso;
- in ‘Northanger Abbey’ e in ‘Mansfield Park’ si scrive di un fratello grande che spicca fra gli altri ‘molti fratelli e sorelle più piccoli’ delle protagoniste.
Naturalmente sono le personalità di questi stretti parenti delle nostre eroine, e non la loro numerosità, che meritano l’attenzione più grande, per cui proverò qui sotto a farne una sintesi.

Sorelle ipocondriache: la sorella di Emma del romanzo omonimo, di nome Isabella,  viene descritta come dal buon carattere, molto devota al marito ma anche ansiosa e perennemente preoccupata della sua salute e soprattutto di quella dei figli, caratteristica ereditata dal padre, Mr Woodhouse. Ne esce comunque come personaggio positivo sebbene lontano dalla protagonista poiché immersa nel suo privato mondo familiare. Un po’ più negativo, ma simpatico a modo suo, il personaggio della sorella minore di Anne Elliot, Mary, del romanzo ‘Persuasione’, che è perennemente  ‘indisposed’ - indisposta, più per farsi compatire e per attirare su di sé l’attenzione di persona infantile e insicura che per reale fragilità fisica.
Sorelle buone: la sorella buona per eccellenza è Jane che è anche la più bella delle sorelle Bennet di ‘Orgoglio e Pregiudizio’, talmente bella che questa sua caratteristica tende a mettere in secondo piano la sua personalità. Molto simpatico ed esplicativo il commento di Mr. Bennet, suo padre, quando commenta il futuro degli sposi Jane e Mr Bingley : ‘..Non dubito che andrete molto d’accordo. I vostri caratteri si assomigliano. Siete tutti e due così arrendevoli che nessuno dei due prenderà mai una decisione; così indulgenti che tutte le persone di servizio vi imbroglieranno; e così generosi che spenderete più delle vostre rendite.’ 
Marianne di ‘Ragione e Sentimento’, passionale e romantica, è profondamente e sinceramente legata alla sorella Elinor e anche se in una fase del romanzo la critica per la sua mancata ostentazione di sentimenti, proverà per lei poi sincera felicità e affetto quando finalmente riuscirà a coronare il suo sogno d’amore con Edward. Viceversa se intendiamo Marianne la protagonista dello stesso romanzo ed Elinor la sorella, non meno si può dire del profondo affetto e generosità che dimostra quest’ultima soprattutto nel momento di maggior sofferenza dell’eroina disillusa dall’amore.
 Sorelle cattive: la cattiva per eccellenza a mio avviso risulta Elizabeth, sorella maggiore di Anne Elliot di ‘Persuasione’, presuntuosa, vanitosa e sprezzante verso entrambe le sorelle minori, fino a trattare Anne come una umile domestica. In sintesi, la fotocopia del vacuo padre, il Baronetto Sir Walter Elliot. Si annovera inoltre fra le cattive anche l’infingarda Penelope del romanzo incompleto ‘i Watson’, che per pura invidia ha fatto sfumare alla sorella maggiore Elizabeth il suo sogno d’amore con il giovane Purvis, oltre che vessare con comportamenti poco fraterni la sorella minore e da poco ritrovata Emma.
  
Fratelli con personalità mediocri: a parte il magnifico Darcy e in misura leggermente inferiore il fulgido Capitano Wentworth, non si può dire che J. Austen sia stata generosa con la caratterizzazione dei personaggi maschili nei suoi romanzi, per cui i fratelli che compaiono a fianco di tre delle nostre eroine non spiccano proprio per meriti particolari o personalità incisive. Nell’ordine possiamo ricordare William, fratello amato di Fanny Price, protagonista di Mansfield Park, che onesto ma poco abbiente e in difficoltà oggettive viene aiutato da un di lei spasimante ad entrare in Marina. James invece, fratello di Catherine Moreland di ‘Northanger Abbey’ si lascia abbindolare dall’egoista Isabella Thorpe la quale inizialmente si fidanza con lui credendolo facoltoso, ma che poco dopo molla miseramente appena viene a conoscenza delle rsue modeste condizioni di figlio di un pastore. Ne ‘I Watson’ Robert, fratello maggiore della protagonista Emma, non solo non spicca per intelletto, ma la sua mediocrità si esprime anche sottoforma di cattiveria e presunzione, alimentate dall’arrivista moglie. Anche Sam, fratello minore di Emma, sebbene più simpatico e affettuoso complice della sorella, viene descritto come medico non eccellente e alle prime armi, nonchè sfortunato in amore.

Sorelle sciocche e immature: in questa categoria spiccano due delle famose sorelle Bennet con in testa sicuramente la più giovane, viziata e civetta Lydia, che stoltamente si fa trascinare dallo scapestrato Wickham in un infelice matrimonio riparatore, seguita poi da Kitty che imita in toto gli atteggiamenti della prima per mancanza di personalità e smalto. Anche Margareth de ‘I Watson’, sorella di Emma, non spicca per simpatia, poiché spinta solo dal proprio egoismo, modula un’apparente cortesia ed affabilità nei modi che si tramuta con niente in irritazione, malevolenza e scontentezza ostentata a causa delle sue modeste condizioni economiche.

Sorelle neutre: cito infine in questa categoria due delle più piccole sorelline presenti negli amati romanzi che, per quanto non particolarmente incisive, suscitano a mio avviso comunque una certa tenerezza. La prima è la sorellina di Elinor e Marianne di ‘Ragione e Sentimento’, Margaret, che per la sua ingenuità e semplicità attira da subito le amorevoli attenzioni di Edward, suo futuro genero, mettendone indirettamente in evidenza una di lui positiva qualità. L’altra è Mary Bennet che, sebbene venga descritta come bruttina e priva di personalità, cosa che cerca di colmare con la lettura e l’applicazione continua al pianoforte, mi intenerisce soprattutto per il fatto che sia stato determinato per questi motivi il suo futuro come zitella e badante degli anziani genitori.

Probabilmente Jane Austen qualche spunto per le caratterizzazioni di questi personaggi lo ha preso anche dai suoi fratelli e sorelle, 8 in tutto. Ad esempio sono diversi i parallelismi che i critici hanno trovato fra le sorelle Dashwood, Marianne ed Elinor e la stessa Jane e sua sorella Cassandra, ma che sia vero o meno, sicuramente colpisce la fantasia nelle sfumature dei caratteri e la capacità descrittiva in generale di una delle scrittrici più talentuose di ogni secolo.

venerdì 26 ottobre 2012

Amor cortese fra realtà e mito


…Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
      Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
      E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
      Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
      Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
       Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
       Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
      la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante»

                                               Dante, Canto V dell’Inferno

Paolo e Francesca sono gli spiriti sofferenti che Dante incontra nel girone dei lussuriosi nel V canto dell’Inferno. Così gli raccontano il motivo della loro presenza in quel posto dannato, colpevoli di essere stati travolti dalla passione che li ha condotti all’adulterio. Francesca da Polenta infatti aveva sposato con matrimonio combinato dalle rispettive famiglie, il deforme e brutto Gianciotto Malatesta, fratello di Paolo. Ma è con quest’ultimo che Francesca prova per la prima volta quella forma di amore che, nato dall’attrazione fisica, presenta da un lato la tensione spirituale data dall’idealizzazione degli amanti e dall’altro non nega però il desiderio erotico. Questo amore, fonte di sofferenza ma anche di estremo piacere, nel caso dei due protagonisti citati da Dante, finisce in tragedia quando, una volta scoperto il tradimento, il marito offeso Gianciotto uccide entrambi gli amanti a pugnalate.
L’amor cortese, perchè Paolo e Francesca incarnano questo tipo di sentimento, pone l’uomo in una condizione di servizio e adorazione verso l’amata, che viene idealizzata, ammirata e altrettanto bramata. Questo amore può essere concepito solo al di fuori del matrimonio poiché nella maggior parte dei casi nel Medioevo gli stessi erano combinati e raramente i due sposi avevano il tempo anche solo di conoscersi prima della cerimonia.
Meraviglioso l’intreccio che Dante fa in questo canto fra la storia dei protagonisti e quella più famosa di Lancillotto e Ginevra, personaggi mitologici appartenenti alla saga dell’altrettanto noto Re Artù britannico.
E’ infatti leggendo la loro storia che Paolo trova il coraggio di baciare Francesca e di cedere alla tentazione che sarà poi causa della loro rovina. Non meglio è andata a Ginevra e Lancillotto il cui amore nasce quando il cavaliere salva la bella regina sposa di Artù dalla prigionia del cattivo Meleagant e, nonostante i tentativi di entrambi di non fare torto al saggio e amato Re, con il passare del tempo vengono del tutto travolti dalla passione che diverrà fatale sia per i protagonisti che, si narra, per lo stesso regno di Camelot.
Realtà e mito perché in un caso, quello di Paolo e Francesca, i personaggi sono realmente esistiti, mentre Lancillotto e Ginevra sono personaggi appartenenti alla leggenda che non hanno mai smesso di personificare l’amore vero anche se illecito e tragico.
Tra i vari film che narrano la storia di Lancillotto e Ginevra quello che romanticamente a mio avviso lo rappresenta meglio è ‘Il primo cavaliere’ di J. Zucker del 1995, interpretato da Sean Connery nei panni di Re Artù, Richard Gere in quelli di Lancillotto e Julia Ormond di Ginevra. Poco storico come film, riprende una delle diverse versione del mito, quella in cui Lancillotto era un mercenario capitato per caso alla corte di Re Artù, che si innamora della Regina e che alla morte del sovrano sembra quasi coronare il suo sogno d’amore con la benedizione dello stesso morente.
Sicuramente se c’è una cosa che Richard Gere ha saputo trasmettere bene è la passione fisica nei momenti clou del film - suo cavallo di battaglia – ma resta unica e maestosa in tutti i sensi l’interpretazione del sempre verde Sean Connery nei panni del più famoso e forse mai esistito Re della Gran Bretagna, Artù.