Nel 2011 Andrea
Arnold ha provato a reinterpretare uno dei romanzi più discussi della metà
dell’Ottocento, opera prima e unica di Emily, poetessa e sorella più
‘selvaggia’ delle tre famose Brontë. ‘Wunthering Heights’ (pubblicato nel 1847)
è stato infatti dapprima censurato e demolito dalla critica, e poi più tardi
riscoperto e considerato una delle opere più crudelmente romantiche del periodo
vittoriano. Diverse sono le rappresentazioni, film o serie TV, ad esso dedicate
fra cui la mia preferita di sempre resta quella del 1992 con Ralph Fiennes e
Juliette Binosche. Finchè appunto, nel 2011, sul filone di questi ultimi anni
di rimettere in scena grandi classici in costume (come ad esempio Jane Eyre del
2011 o Anna Karenina del 2012), la regista alternativa Andrea Arnold dirige un
‘Wunthering Heights’ che riscuote poco successo di pubblico ma che forse per
certi versi risulta fra i più fedeli allo spirito ‘selvaggio’ dell’autrice.
Vorrei partire
però dagli elementi di rottura che la regista introduce per dare un’originalità
tutta sua al film rispetto al romanzo.
Innanzi tutto viene
sviluppata solo la prima parte del romanzo, quella del tragico amore tra
Heathcliff e Catherine, e in particolare nella fase adolescenziale, mentre si
intravedono appena i discendenti bambini che saranno protagonisti
successivamente di un epilogo più positivo dei loro intrecci amorosi. La scelta
di un Heathcliff di colore è l’altro elemento di novità, che mira ad enfatizzare
l’atteggiamento razzista del fratello di Catherine prima e della famiglia
Linton poi, rispetto a quello originale che si intuisce abbia origini zingare
più che africane. La casa degli Hearnshaw poi è una misera fattoria di legno e
non una struttura in pietra del ‘500 che, nelle fantasie di chi legge il
romanzo, dà più la sensazione di una magione gotica decaduta e infestata dai
fantasmi. C’è poi la scelta visiva del rapporto della scena, 1,33:1, ovvero,
per i non tecnici, l’immagine risulta come tagliata ai lati per dare una
prospettiva diversa e ci sono anche passaggi volutamente traballanti realizzati
da riprese fatte a mano come ad inseguire i protagonisti.
Ma mentre si
osservano queste particolarità, per me che amo questo romanzo quasi con un sentimento
di fastidio e che ho letto la biografia di Charlotte Brontë scritta da
Elizabeth Gaskell, dove ovviamente si parla di tutti i componenti della
famiglia, ho trovato molte analogie con quello che credo di aver inteso sia
stato lo spirito più profondo di Emily, o almeno quello che ci è stato
tramandato.
Dalle lettere
della sorella Charlotte e dalle descrizioni raccolte dai conoscenti dalla
Gaskell, Emily, la penultima sorella in ordine di età (o la seconda delle tre
più famose) risulta una ragazza ruvida, forte fisicamente e caratterialmente,
molto introversa e di poche parole che ama passare molto tempo in solitudine a
passeggiare nella selvaggia brughiera dello Yorkshire dove è cresciuta; rifugge
infatti qualsiasi tipo di contatto con gente che non fossero i componenti
stretti della sua famiglia. La sua vita, come quella di tutti gli altri suoi
fratelli e sorelle, risulta caratterizzata dall’assenza della madre che dopo i
numerosi parti (6 in
tutto) si ammala gravemente per lasciare alle cure delle balie i bambini fino
alla sua morte. Il padre, un Clergymen
del nord, forte, testardo e con l’animo impetuoso, fornisce ai figli la
possibilità di godere di un acculturamento non comune per quei tempi e luoghi, ma
la dimensione affettiva quei fratelli la devono trovare fra di loro,
coltivando, in particolare le 3 sorelle rimaste in vita, un’interdipendenza
così forte da sembrare componenti diverse di un unico corpo.
Due sono gli
aneddoti più o meno famosi che in particolare descrivono la peculiarità della
personalità tanto rocciosa quanto sensibile di Emily: il primo quello dell’
‘addomesticamento’ del suo cane, un bulldog tanto feroce con le persone in
genere quanto mansueto con la sua
padrona, che per insegnargli a non soggiornare nella di lei camera da letto, lo
convince a suon di pugni nel muso! L’altra, più nota, la tenacia con cui
affronta la morte: malata di tubercolosi, rifiuta medico e qualsiasi tipo di
medicina e continua moribonda a condurre la quotidianità dei suoi gesti
domestici senza fiato e forze sotto lo sguardo disperato della sorella e del
padre. Solo quando sente arrivare la fine e nell’ultimo giorno della sua vita
di trentenne, Emily accetta di farsi vedere dal medico consegnandosi
‘fisicamente’ all’uomo ma consapevole che il suo spirito ormai è altrove.
Tornando dunque
al film della Arnold, trovo analogie nell’insistenza quasi ossessiva delle
immagini della brughiera selvatica dell’Inghilterra del nord battuta dal vento,
dove tutto si svolge: l’incontro tra i giovani Heathcliff e Catherine, lo
sviluppo della loro intesa che poi diventa amore possessivo e poi anche l’odio
quando Catherine decide di guardare altrove, frequentando il giovane Linton.
L’incontro in età adulta dopo la lunga separazione dei due innamorati e la
vendetta di Heathcliff che sembra non perdonare chi l’ha fatto soffrire così
tanto: i Linton, il fratellastro e Catherine stessa. Tutto è pura natura,
pochissimi i dialoghi veri e propri e accentuati invece i rumori della pioggia,
del vento, degli animali o dei respiri delle persone.
Pensando allo
stile di vita più congeniale ad Emily, caratterizzato da solitudine e contatto
con la natura, la Arnold sembra rispecchiare davvero l’ambiente in cui ha preso
forma il romanzo.
La crudezza di certe scene poi, come le botte
prese da Heathcliff, le scarse condizioni igieniche in cui vivono i
protagonisti contornati da fango e pioggia ovunque, il maltrattamento degli
animali, come ad esempio dei cuccioli di cane appesi per il collare per puro
sadismo, descrivono una dimensione che secondo me per noi oggi è esasperata ma
che probabilmente per quei tempi e in quelle zone era quasi normale.
Infine
l’inevitabilità della morte e il modo in cui viene subita, eccezion fatta per
Heathcliff quando muore la sua Catherine, che è parte costante della
quotidianità, quasi sottofondo da accettare di per sé. Nella biografia della
Gaskell emerge costantemente questa inevitabilità nella famiglia Brontë che vede
sterminati uno a uno madre e tutti i 6 figli in poco più di un ventennio a
causa di diffuse edipemie o stili di vita eccessivi come nel caso dell’unico
fratello Patrick.
Concludo quindi
dicendo che il film della Arnold, che poco enfatizza la dimensione romantica di
questo famoso quanto folle amore, mi ha colpito per aver messo in luce quella
che secondo me è la rappresentazione più realistica dell’ambiente in cui Emily è
cresciuta e in cui ha voluto ambientare il suo unico e disperato romanzo.
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